Tornare a galla
Quando ripenso a questo blog mi sento come un figlio adolescente che ha lasciato il nido e che solo di rado si ricorda ti telefonare a casa. Ogni tanto, qualcuna delle lettrici più fedeli, mi scrive per chiedermi che fine ho fatto. Perché abbia “abbandonato” questo spazio che per tanti anni è stato un punto di incontro, un luogo di scambio, un posto sicuro dove incontrarsi e confrontarsi.
Lo so che non sembra, ma non l’ho abbandonato. Continuo a pagare l’hosting e a fare quel minimo di manutenzione senza la quale non sarebbe più online. Ci tengo molto, a queste pagine che raccolgono i primissimi anni della vita dei miei tre figli. Quegli anni felici in cui vivevo nel mondo incantato che mi ero costruita con le mie mani.
Qualche tempo fa ho chiesto ai miei figli quali fossero stati gli anni più felici della loro vita. Nonostante tutti i problemi che stiamo attraversando (in generale come società e in particolare come famiglia) tutti e tre hanno detto “adesso”.
Il senso di colpa
È stato bello perché per me “adesso” è l’indomani dell’inferno e una delle cose che maggiormente mi hanno fatto soffrire negli ultimi anni è il senso di colpa. La paura di aver creato in loro un disagio che si porteranno dietro per sempre. Sto parlando ovviamente del divorzio, pianificato con tutte le buone intenzioni possibili, e poi diventato un incubo da cui sto venendo fuori solo ora. Inserito nel contesto della pandemia, poi, c’è poco da stare allegri.
Una cosa però mi ha molto rattristato. Quando anche loro hanno rivolto a me la stessa domanda, io ho risposto che gli anni più felici per me sono stati quelli della “Casa nella prateria”, quelli trascorsi ad Annecy dopo la nostra “fuga dalla città”. Di quegli anni, loro, quasi non si ricordano. Soprattutto Chiara, che era molto piccola, ma anche Leo e Gloria.
È triste per me pensare che hanno ricordi vaghi di quegli anni così felici, e e che saranno probabilmente più nitidi quelli in cui tirava un’aria gelida tra i loro genitori. Mi consola solo il fatto che, probabilmente, ciò che abbiamo costruito in quelle prime fasi della loro infanzia, fa parte degli strumenti che permettono loro di essere relativamente sereni oggi, nonostante la situazione attuale.
I figli
Sono stata fortunata con i miei tre figli. Sono venuti su più che bene. Probabilmente fanno a mia insaputa un sacco di cose che non approverei, e alcune me le fanno anche sotto il naso. Soffro nel vederli imboccare l’inevitabile strada che porta verso la vita adulta: il voltare le spalle ai genitori per costruire il proprio futuro. Ma in fondo è proprio così che li ho educati. Sapevo che era giusto, ma non immaginavo quanto fosse doloroso.
Sono stata una mamma “ad alto contatto” e a volte qualcuno mi ha detto che dei figli educati così sarebbero stati incapaci di andare nel mondo. Sono sempre stata certa del contrario: del fatto che un essere umano che si sente amato, che ha delle basi solide e sicure, sia in grado di spiccare il volo in modo molto più sicuro, e il tempo mi sta dando ragione. In tutto questo, ho solo dimenticato di pensare a me. Eppure una persona che mi ha messa in guardia fin dal primo giorno c’è stata: mia madre.
“Non annullarti per i figli!” mi ha sempre detto. “Ma io non mi sto annullando, sono felice!” rispondevo. Ed era vero. Gli anni passati a prendermi cura di loro non sono stati anni persi, nemmeno dal punto di vista professionale. Mi hanno permesso di dedicarmi alla scrittura che poi, con un po’ di fortuna, è diventata un lavoro: il sogno che custodivo in fondo al cuore ma per il quale, per via della “sindrome dell’impostore“, non avevo mai osato lottare.
Poi un giorno mi sono svegliata e mi sono accorta che sì, mi stavo annullando. Ma non per i figli. O meglio, non nel modo in cui intendeva mia madre. Mi sono accorta che mio marito era diventato un estraneo e che io, pur di evitare ogni possibile conflitto, preferivo tacere e stare in disparte.
Finché il lavoro non ha iniziato ad offrirmi delle scappatoie. A volte mi invitavano a tenere una conferenza, altre a presentare un libro, altre ancora a documentare un evento. In questi momenti ero di nuovo me stessa. Non solo avevo il diritto di esprimermi, ma esprimermi era proprio ciò che ero chiamata a fare. Per un po’ ho pensato che questi spazi di esteriorizzazione avrebbero potuto compensare l’auto-censura che mi ero imposta in casa, ma la verità è che quando si apre una piccola falla, o viene richiusa o farà crollare tutto.
Un ulteriore tentativo di tornare a “fare la brava” è stato il ritiro di meditazione Vipassana: una delle esperienze più belle e forti della mia vita. “Speriamo che serva”, ha detto qualcuno. Sperava che servisse a togliermi dal mio stato di profonda prostrazione, ma non è così che funziona. O meglio, è servito. È servito a riempirmi di amore, pazienza, buone intenzioni. Mi ha dato quello che cercavo. Ma stavo cercando la cosa sbagliata: la forza di sopportare. E, per qualche altro anno ancora, ce l’ho fatta.
Il coraggio di dire basta
Ma quella falla che si era aperta si sgretolava pian piano diventando una gigantesca crepa. Così ho trovato finalmente la forza di affrontare l’argomento, ma questa è una storia che conoscete già.
“Ce la farai economicamente?” mi aveva chiesto il mio medico che, avendomi seguita durante un precedente periodo di depressione, si preoccupava della mia stabilità materiale e psicologica.
“Venderò la casa” ho risposto. Una casa che apparteneva a me ma che sarebbe stata troppo impegnativa da mantenere da sola.
Purtroppo le cose non vanno sempre come vorremmo. Il divorzio è stato tutt’altro che amichevole e il mercato immobiliare pure. Nemmeno abbassando il prezzo al punto che gli agenti immobiliari rifiutavano di seguirmi sono riuscita a liberarmi di quella che era diventata la mia gabbia dorata. Una casa grande e bella, che bella era sempre meno perché non riuscivo, né fisicamente né economicamente, ad occuparmene come avrei dovuto, e perché avevo iniziato ad odiarla, il che la rendeva, oltretutto, sempre meno appetibile per i potenziali acquirenti.
Alla scrittura, alla traduzione e allo yoga, ho iniziato ad affiancare delle ore di pulizie. Pulivo ville, appartamenti, e le scale di una comproprietà. Finché l’amministratore, dopo aver incassato diversi rifiuti per uscite romantiche, non ha deciso che pulivo male e mi ha dato il benservito.
La custodia congiunta, sebbene fosse la soluzione migliore per i nostri figli, era per me uno strazio. Sono sempre stata una persona solitaria ma non era la solitudine a pesarmi. Era la loro assenza. Il fatto di perdermi il 50% di quella parte delle loro vite che ancora mi restava da condividere. Il fatto che avessero già, in quattro e quattr’otto, un’altra famiglia dall’altra parte e che trovassero, tornando a casa mia, una donna triste e sola, impantanata nelle acque torbide della depressione.
E mentre loro crescevano e, come è normale, prendevano le proprie strade, io mi rimproveravo per non aver reso più belli i nostri ultimi anni part-time. Di aver rovinato tutto. Volevo dare l’esempio di una donna forte che si riprendeva la sua vita; ho mostrato loro una persona depressa, infelice e dipendente dal loro affetto.
E siccome i guai non vengono mai soli, o più probabilmente perché il nostro stato mentale influisce fortemente sul fisico, sono iniziati anche i problemi di salute. Ho dovuto subire prima un’ovariectomia, poi un’isterectomia, il tutto ovviamente immerso nel clima della pandemia.
Credo di aver toccato davvero il fondo. Quel punto dal quale non si può che risalire. E, per fortuna, sono circondata da persone che sono sempre state pronte ad afferrare la mia mano per tirarmi su. Dalla famiglia, al mio nuovo compagno, alle amiche, alla mia preziosissima terapeuta, che mi ha persino fatto credito quando non potevo permettermi di pagarla.
L’ho già detto altre volte in questi anni, e spero di non sbagliare ancora. Oggi mi sembra di vedere nuovamente una luce in fondo al tunnel. Recentemente ho ricominciato ad occuparmi della casa e non vedo l’ora che arrivi la primavera per veder rifiorire il giardino. Ho ripreso a scrivere, e ho persino rispolverato il mio caro, vecchio blog, compagno delle serate solitarie del periodo più bello della mia vita. Quel periodo che i miei figli non ricordano, ma che fa parte di loro e costituisce le fondamenta dei ragazzi che sono e degli adulti che saranno.