Mio Fratello, il Terrorista
Ho appena finito un libro sconvolgente scritto da Abdelghani Merah, fratello di Mohammed Merah, il terrorista che, nel 2012, ha tenuto la Francia con il fiato sospeso uccidendo sette persone (tre bambini e un papà in una scuola ebrea, e tre militari) e ferendone altre sei prima di essere abbattuto, in seguito ad un lungo assedio, dalle forze dell’ordine.
Spesso, qui in Francia, si sente dire che i musulmani dovrebbero reagire agli attentati e far sentire la propria voce. Ebbene, Abdelghani l’ha fatto, nonostante le minacce di morte e nonostante questo abbia decretato la sua esclusione definitiva dalla famiglia d’origine, che ritiene in parte responsabile per gli atti compiuti da Mohammed e che denuncia fortemente nel libro “Mon frère, ce terroriste“.
Maggiore di una famiglia di cinque figli, Abdelghani racconta come l’educazione ricevuta abbia portato il più giovane dei suoi fratelli direttamente tra le braccia dei salafisti. «Non hanno fatto che cogliere il frutto maturo di ciò che i miei genitori avevano coltivato», afferma in un’intervista radiofonica.
Abdelghani racconta di come i genitori complimentassero i loro figli quando riuscivano a rubare qualcosa al supermercato e di come, invece, li sgridassero quando venivano fermati dalle guardie.
Un giorno, alla vigilia di Natale, ho rubato 200 franchi a mio padre. Volevo, per una volta, avere anch’io un regalo, come i miei amici. Ho sotterrato il denaro vicino ad un negozio di giocattoli per evitare che mio padre, frugando tra le mie cose, lo ritrovasse. Qualche giorno dopo sono andato a recuperarlo e mi sono comprato un trenino elettrico. Quando sono tornato a casa ho detto a tutti che l’avevo rubato. Mia madre era fiera di me: «Bravo! Hai fatto bene!» mi ha detto.
Contrariamente agli altri fratelli e sorelle Abdelghani (e con lui sua sorella Aïcha) non era a suo agio nel clima di delinquenza e antisemitismo che regnavano in casa. Era felice di andare a scuola, dove respirava un po’ di spensieratezza. A chi gli chiede come mai, nonostante un’educazione identica, lui sia così diverso da suo fratello, Abdelghani risponde che i tempi sono cambiati: quando lui era ragazzino gli insegnanti erano davvero motivati ed interessati all’educazione dei loro allievi. Nei quartieri difficili come quello in cui è cresciuto, poi, c’era la police de proximité, un corpo abolito poi da Sarkozy, che sorvegliava i giovani e forniva loro un minimo di educazione civica.
Oggi ai poliziotti è impossibile entrare in certi quartieri: vengono violentemente aggrediti e, se reagiscono, sono loro a finire nei guai. Le bande di trafficanti si occupano di tenere sotto controllo i piccoli delinquenti e lo stato ha finito per delegare a loro questo compito. Viene a mancare, però, l’aspetto educativo, e i giovani provenienti da famiglie poco raccomandabili non hanno più speranza. L’autore cita i figli adolescenti di sua sorella, che fanno homeschooling davanti alla playstation giocando a Call of Duty e che guardano su YouTube, insieme ai genitori, i video di propaganda. Questi ragazzi vengono educati all’odio e non hanno modo di confrontarsi con una realtà diversa. Cosa succederà quando diventeranno adulti?
«Ho paura per la Francia» dice Abdelghani.
Anche io ho paura per la Francia, e per l’Europa. Per il mondo. E ho paura per Abdelghani, quest’uomo spezzato, considerato la “pecora nera” dai suoi familiari per i quali Mohammed, il terrorista, è invece un eroe. Prima o poi temo che lo faranno fuori. Se cerchi il suo nome su google, il motore di ricerca ti suggerisce “Abdelghani Merah Traitre“, traditore.
Ho paura per i nostri giovani, che hanno sempre meno valori.
Ho paura che il «Progetto a lungo termine» di cui parlava Munari, lo stiamo attuando al contrario.
Se ti rivolgi ai bambini, che sono il futuro già nel presente, può darsi che tra mille anni la vita sarà diversa. (Bruno Munari)
Poi proseguo la lettura e Abdelghani mi scuote da questa ondata di pessimismo:
Può sembrare incredibile, illogico, contraddittorio, ma io li amo. Non amo il loro integrismo né la loro intolleranza. Ma provo nei loro confronti quel sentimento umano che ci porta a sentire qualcosa nei confronti di chi ci ha dato la vita, e di coloro che chiamiamo «fratelli» e «sorelle».
L’educazione che Abdelghani e la sua compagna hanno dato al loro figlio gli ha permesso di resistere ai tentativi di indottrinamento da parte della famiglia Merah, nonostante in un momento di ribellione (tipico dell’adolescenza) il ragazzo abbia nutrito forti simpatie per questi ultimi e per i loro “ideali”. Ancora una prova del fatto che, come affermava Nelson Mandela e come non mi stancherò mai di ripetere, l’educazione è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo.