L’Italia Sono Anch’io: Storie di Rifugiati
[Le fotografie che illustrano questo post NON raffigurano le persone nominate nel post stesso]
Cheik ancora oggi, dopo più di dodici anni dal nostro incontro, mi manda sms di auguri a ogni festa comandata. Un ragazzo giovanissimo, con gli occhi timidi. Non c’era verso di convincerlo a darmi del tu. Faceva una fatica improba ad esprimersi in italiano, ma si ostinava a darmi dei lei. Di lui non sapevo granché. Veniva a scuola di italiano, diligentissimo. Quando è arrivato, alla domanda “Quanti anni di scuola hai fatto al tuo paese”, ha risposto con un semplice “Jamais”. Mai andato a scuola. Circa un anno e mezzo più tardi è venuto a trovarmi in ufficio, un po’ emozionato. Non voleva farmi perdere tempo, ma ci teneva a farmi vedere il diploma di terza media, il primo titolo di studio della sua vita. Poi si è iscritto a un istituto professionale per diventare meccanico. In quell’occasione, l’ho aiutato a compilare una domanda di ammissione a un corso professionale. Serviva un curriculum, allora gli ho fatto qualche domanda sulla sua vita lavorativa. Mi ha detto che faceva il domestico. “Per quanto tempo hai fatto questo lavoro?”, gli ho chiesto io. “Più di 10 anni”, mi ha risposto con la solita disarmante semplicità. Ho guardato la sua data di nascita. Non sono brava in matematica, dopo due anni trascorsi in Italia, aveva circa 20 anni. Ciò significa che ne aveva 8 quando ha iniziato a “lavorare” da domestico. Qualche tempo dopo ci ha raccontato meglio di quando, bambino, era stato rapito dal suo villaggio da una milizia ed era diventato uno schiavo in una casa da cui solo molti anni dopo è riuscito a scappare avventurosamente. In questi anni Cheik, con il suo impegno costante e silenzioso, ha ottenuto un successo dopo l’altro: un diploma di scuola superiore, la patente, un contratto a tempo indeterminato da meccanico, un buono stipendio, oggi anche una moglie e una bambina. E ancora non smette di dire grazie. Grazie per cosa? Per avere avuto l’opportunità di studiare, che gli era sempre stata negata. Al resto ha pensato lui.
Non voglio darvi una falsa impressione. Non tutte le storie di rifugiati in Italia finiscono bene. Mi vengono subito in mentre tre ragazzi, ancora più giovani di Cheik. Uno di loro, afgano, ha avuto un ictus qui a Roma: è stato in coma, poi si è risvegliato in ospedale. Nessuno lo andava a trovare, non ha nessuno qui. Una professoressa del corso serale che frequentava si è fatta in quattro per andare di tanto in tanto, per informarsi dai medici anche se non potrebbe. Diciotto anni, solo al mondo, in Italia. Lo Stato italiano gli ha concesso la protezione internazionale, ma in questo – come in tanti altri casi – si fatica a capire cosa voglia dire, in pratica. Lo stesso è successo a un ragazzo egiziano, l’estate scorsa. Le mie colleghe, che avevano fatto con lui due o tre colloqui di orientamento in ufficio, erano tra le persone che avevano con lui legami più stretti, qui a Roma. Lo ricordano sperduto in un letto di corsia, confuso e disorientato, completamente perso. Il recupero è stato difficilissimo. Nessuno gli parlava. Un altro ragazzo, afgano anche lui, quella stessa estate non ce l’ha fatta. È affogato, incomprensibilmente, su una spiaggia del litorale romano. Se uno pensa a quello a cui era sopravvissuto, in oltre quattro anni di fuga a piedi, facendo lo slalom tra le mine, nascosto sotto il motore dei tir, non può che pensare alla canzone Samarcanda e alla “nera signora” che aspetta, ironica, dall’altra parte del mondo.
Mi sono dilungata troppo e ho perso anche il filo di quello che volevo dirvi. Tento di riprendervelo. So che sentir parlare di rifugiati può non essere né facile, né piacevole. Non avrei immaginato che la vita mi portasse a occuparmene, in prima persona. Si pensa sempre che queste cose non ci riguardino. Vi assicuro, invece, che moltissimi dei rifugiati che ho incontrato la pensavano esattamente allo stesso modo, prima che l’imprevedibile sconvolgesse per sempre le loro vite. Un giornalista scrive un articolo. Un professore universitario pubblica un libro. Una studentessa partecipa a una manifestazione. Molte delle loro storie cominciano così, con un giorno di lavoro normale, una mattina in cui magari si è discusso con la propria moglie su chi sarebbe andato a prendere i bambini a scuola.
I rifugiati vivono nelle nostre città, invisibili. Incontrarli, conoscerli, è un’esperienza straordinaria. Ci sono molte cose che ciascuno di noi può fare rendere meno difficile la loro vita in Italia e ne suggerisco qualcuna qui. Ma soprattutto, non pensate che “di queste cose se ne occupano gli addetti ai lavori”. Create uno spazio, anche piccolo, nella vostra mente e nella vostra vita. Magari a partire da qualche minuto per guardare questo video:
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*Chiara Peri, mamma e blogger, lavora presso l’Associazione Centro Astalli (sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati JRS), che incontra ogni anno circa 32mila persone, di cui quasi 21mila nella sede di Roma. Il centro Astalli ha come missione quella di accompagnare, servire, difendere i diritti dei rifugiati.
Altre storie di rifugiati in Italia sono raccolte nel libro “Terre senza promesse“.