La Mia Lotta per la Libertà
Può un libro essere allo stesso tempo meraviglioso e agghiacciante? Direi di sì, perché “La mia lotta per la libertà” di Yeonmi Park ha entrambe le caratteristiche.
Questo libro autobiografico racconta la storia della giovane protagonista che, appena ventitreenne, ha vissuto cose che i più sfortunati di noi non vedranno mai, nemmeno lontanamente, nel corso della propria esistenza.
Yeonmi è nata in Corea del Nord, un Paese che oggi definisce “Un immenso campo di prigionia”.
Non sognavo la libertà. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire essere liberi.
Yeonmi racconta la sua infanzia in un Paese in cui l’elettricità non era sempre disponibile, in cui ogni mattina ci si sveglia al suono della radio, fornita dal governo, che ciascuno deve avere in casa e che non si può mai spegnere. La popolazione subisce un costante lavaggio del cervello, che comincia fin dai banchi di scuola:
In seconda elementare studiavamo matematica, ma non come nelle altre nazioni. In Corea del Nord, perfino l’aritmetica è uno strumento di propaganda. Ecco un esempio di problema standard: “Se ammazzi un bastardo americano e il tuo compagno ne ammazza due, quanti sono i bastardi americani morti?”
Quando, da bambina, Yeonmi salutava la mamma per andare a scuola, questa non le diceva “Buona giornata” né “Attenta agli sconosciuti ma “Acqua in bocca”.
In Corea del Nord una parola di troppo può avere conseguenze disastrose: si può finire in prigione o addirittura essere condannati a morte. È consentito adorare solo il “Caro Leader”, e qualsiasi altra forma di amore o di religione è severamente vietata. I bambini non vengono considerati come appartenenti alle loro famiglie, ma al governo.
Ai nordcoreani viene insegnato, fin dalla più tenera età, che il resto del mondo è pericoloso e corrotto, e che solo nel proprio Paese saranno al sicuro. Non conoscendo altro, considerano la loro situazione normale. Non solo: sono grati al “Caro Leader” che li protegge. La disciplina è ferrea.
Tutti quanti sono tenuti a svegliarsi presto e passare un’ora a spazzare e strofinare i corridoi, o a prendersi cura della zona intorno alle loro case. Il lavoro comunitario serve a tenere vivo lo spirito rivoluzionario e far lavorare la gente come fosse un corpo unico. Il regime vuole che ci consideriamo cellule del medesimo organismo, dove un’unità non può esistere senza le altre. Dobbiamo fare tutto nello stesso momento, sempre. Ad esempio, a mezzogiorno c’è la radio che emette il suo beep e tutti si fermano per pranzare. Non c’è scampo.
In Corea del nord non conoscono i tumori, perché nessuno vive abbastanza a lungo per ammalarsi di cancro.
La storia della fuga in Cina, del traffico di esseri umani e di tutto ciò che questa ragazza ha dovuto subire è davvero agghiacciante, ma offre numerosi spunti a chiunque voglia affrontare una riflessione seria sul fenomeno dei migranti. Per quanto io fossi già sensibile all’argomento, le cose che ho letto in questa autobiografia mi hanno toccata nel profondo.
A Hanawon imparammo anche alcune regole della società in cui stavamo per entrare. Per esempio, ci dissero che non avremmo potuto picchiare nessuno, che ci sarebbe costato molti soldi e che saremmo potuti finire in galera. Questo sconvolse i maschi, ma per me era una cosa buona. […] Né la Corea del Nord né la Cina avevano leggi simili, e quando qualcuno mi aveva picchiato non mi ero mai aspettata che venisse punito. Credevo di non avere scelta perché ero debole. Perciò questo sistema legale mi sembrava allettante, dato che proteggeva le persone deboli da coloro che avevano più forza. Non avevo mai concepito una tale idea. […];Fino a quel momento, avevo sempre creduto che essere liberi significasse poter indossare i jeans e guardare tutti i film che volevo senza preoccuparmi di essere arrestata. Ora invece mi rendevo conto di dover pensare costantemente, ed era estenuante.
Ma nonostante le terribili vicissitudini e le gravi perdite che ha dovuto affrontare, Yeonmi non si è mai rassegnata ed è riuscita a salvarsi rifugiandosi in Corea del Sud, quello stesso Paese che credeva corrotto abitato dai “Bastardi americani”.
A volte l’unico modo per sopravvivere ai nostri ricordi è di trasformarli in una storia in grado di trarre un senso da eventi apparentemente incomprensibili.
Raccontando la sua storia, questa ragazza ha avviato il suo processo di guarigione. Non solo: ha deciso che avrebbe aiutato gli altri, ed è oggi un’attivista che si batte senza sosta per i diritti umani. Il suo sogno? Vedere le due Coree di nuovo unite, e liberare il suo popolo dalla schiavitù e dalla miseria nella quale viene tenuto con la forza.