Il Ruggito della Mamma Tigre
Durante un piacevole weekend trascorso in Italia ho avuto occasione di sfogliare alcune riviste che parlavano del libro “Battle Hymn of the Tiger Mother“, il libro di Amy Chua che sta facendo scalpore negli USA.
L’autrice descrive uno stile educativo a suo dire tipicamente cinese (ma come, non sono loro che hanno inventato il mei tai?) volto ad ottenere risultati eccellenti per i propri figli. A tale scopo è indispensabile proibire loro di andare a giocare (o peggio ancora a dormire) a casa di amici, di partecipare (o peggio ancora lamentarsi per il fatto di non poter partecipare) alle recite scolastiche, di guardare la tv o di giocare ai videogiochi, di scegliere le proprie attività extrascolastiche, di suonare strumenti diversi dal pianoforte e dal violino (che è invece necessario saper suonare alla perfezione) e così via.
Secondo Raffaella Carretta, direttrice del settimanale Gioia, “La mamma tigre ruggisce perché la prole appena nata capisca subito il messaggio: il mondo è un posto duro, dove si eccelle o si muore, dove i genitori ne sanno più dei figli, e la parola desiderio non appare neppure in fondo alla loro lista”.
La rivista A dedica invece un intero articolo, firmato da Cristina Bianchi, alla questione della madre tigre, che confronta con altri tipi di mamma:
- La madre canguro, che allatta fino ai due anni e, con altre talebane del capezzolo, si scambia consigli sul web.
- La madre ragno, che trascura i figli per dedicarsi al suo blog.
- La madre labrador, i cui figli devono sperimentare da soli le conseguenze dei propri errori.
- La madre ape regina, che si riproduce generosamente, si preoccupa dell’ambiente e manda i figli alla scuola steineriana.
Una bella accozzaglia di stereotipi che faranno certamente infuriare le talebane del capezzolo, le mamme blogger, le mamme steineriane, le mamme in generale. Perché alle mamme non piace essere etichettate. Ma se si arrabbiano tanto è anche, secondo me, perché in quelle etichette ci si riconoscono.
Io stessa mi riconosco parzialmente in quasi tutte le descrizioni. Ovviamente non mi considero una talebana del capezzolo né sono ossessionata dal mio blog al punto di non sentire i miei bambini che piangono. Ma sono una mamma che porta, una mamma che allatta, una mamma che blogga, una mamma che cura, una mamma “seriale”, una mamma ambientalista… insomma, ho qualcosa in comune con tutti i profili (escluso quello della madre tigre, al quale del resto non aspiro affatto).
E se il termine talebane del capezzolo mi ha infastidita, è perché mi sono sentita chiamata in causa. Se il “Qui racconta la sua interessantissima vita tra pannolini, iscrizioni scolastiche” ecc. mi ha divertita è perché, anche in questo caso, mi sono identificata (seppur solo parzialmente) nel personaggio descritto.
Ma torniamo ad Amy Chua e alle sue sconvolgenti affermazioni, questa volta sul Wall Street Journal: molti genitori cinesi ritengono di occuparsi dei propri figli molto meglio degli occidentali, che sembrano non curarsi del fatto che questi non abbiano successo. Il fatto di preoccuparsi dell’autostima, del benessere psichico dei propri figli viene visto come una debolezza.
I genitori occidentali cercano di rispettare l’individualità dei loro figli, spingendoli a seguire le proprie passioni, incoraggiondoli e sostenendo le loro scelte. I cinesi invece credono che il modo migliore per proteggere i propri figli sia prepararli per il futuro, mostrare loro di che cosa sono capaci ed armarli di tutto ciò che è necessario per affrontare la vita con una fiducia in sé che nessuno potrà distruggere.
Mah. Voi che ne dite?