Depressione, Farmaci e Senso di Colpa
Ogni giorno ricevo messaggi da parte di persone che leggono questo blog. Alcune lo seguono da anni, altre ci sono arrivate per caso. Molte mi scrivono perché si identificano in quello che racconto. Di mamme depresse, in questi anni, ne ho sentite tante. Donne forti, che cercano di venirne fuori, e che spesso mi raccontano di aver rifiutato gli antidepressivi proposti dal medico. Questa affermazione mi mette sempre molto a disagio.
Sono la prima a preferire le cure naturali ai farmaci ma quando la situazione è grave bisogna intervenire in modo drastico. La depressione è una malattia e come tale va trattata. Non vi sto consigliando di imbottirvi di psicofarmaci perché fuori fa brutto e vi sentite di cattivo umore, ma se state male e un medico che vi conosce bene vi ha consigliato una terapia farmacologica, credo sia irresponsabile rifiutarla.
Come quei malati di cancro che decidono di curarsi con i frullati.
Perché la depressione, ve lo ricordo, può essere una malattia mortale. Per chi ne soffre o per chi gli sta vicino. E c’è poco da scherzare.
Quando il mio medico curante mi ha prescritto un antidepressivo non ho avuto la forza di ribellarmi. Ero talmente in fondo al tunnel che qualsiasi cosa mi avesse proposto, fosse anche una bottiglia di whisky, l’avrei presa per buona. Era comunque una mano tesa. C’era qualcuno che aveva deciso di aiutarmi. È proprio in quei momenti che le persone finiscono, in effetti, nelle mani sbagliate e si fanno abbindolare dai presunti guru. Consideratevi fortunati di trovarvi di fronte ad un medico competente nel quale avete fiducia. E se non avete fiducia nel vostro medico curante non aspettate di stare davvero male, cambiate subito e trovatene uno degno di questo nome. Potrebbe essere un’impresa, questo ve lo concedo, ma ne vale la pena.
Dicevo, dunque, che quando il mio medico mi ha proposto un antidepressivo non me lo sono fatto ripetere due volte. Nel giro di qualche settimana ho iniziato a stare meglio, ed eccolo lì, il senso di colpa, pronto a rovinarmi la festa. Avevo ritrovato il sorriso e la voglia di stare con i miei figli, nonostante la stanchezza fisica. Ma era possibile che io, che avevo sempre desiderato diventare mamma, avessi bisogno di un farmaco per godermi i pomeriggi insieme ai miei bambini? C’era qualcosa che non andava in me. Quella donna sorridente non ero io, era una specie di drogata che stava in piedi grazie ai farmaci.
Dopo nemmeno un mese ho deciso di interrompere la terapia e ho ricominciato a piangere “a vanvera”. Bastava un piccolo contrattempo, un automobilista maleducato, un capriccio un po’ più insistente del solito, e via.
Questo – ovviamente – non faceva che confermare la mia tesi. Quella ero io. Quella che piangeva ogni cinque minuti e che aveva voglia di abbandonare i figli sul ciglio dell’autostrada. In quella persona cattiva e incompetente sì, che mi riconoscevo.
Ed ecco che entra in gioco l’importanza del medico fidato. Sono tornata a bussare alla sua porta e gli ho esposto la mia inconfessabile teoria.
«Se ho bisogno di un farmaco significa che non sono davvero guarita. Io voglio farcela da sola».
«Cosa risponderesti ad un diabetico che volesse ostinarsi a produrre la propria insulina da sé invece di assumerla tramite i farmaci?»
Sono rimasta lì, imbambolata, con i miei occhi gonfi di lacrime, incapace di elaborare una risposta.
«Il corpo di un diabetico non produce abbastanza insulina. Per questo glie la somministriamo. Secondo te una persona incapace di produrre la propria insulina perde la propria integrità quando la assume sotto forma di farmaco?»
– Silenzio –
«Il tuo organismo, in questo momento, non produce abbastanza serotonina. Io te la prescrivo, come prescrivo l’insulina ai miei pazienti diabetici. Contrariamente ad un diabetico, che dovrà curarsi per tutta la vita, tu potrai sospendere il trattamento quando starai meglio. Decideremo insieme come e quando»
E così è stato. Complice la primavera, la pratica dello yoga e l’Analisi Transazionale, dopo qualche mese ho dimezzato la dose, poi sospeso completamente l’assunzione del farmaco. Oggi lo vedo come una stampella che mi ha aiutata a camminare quando non ce la facevo da sola. Forse avrei potuto farne a meno, ma il percorso sarebbe stato molto più lungo e difficoltoso, e a soffrire non ero solo io ma anche i miei familiari. Forse sarei guarita lo stesso a forza di fiori di Bach. O forse avrei commesso qualche atto sconsiderato, come capita a volte alle persone che soffrono di depressione.
A chi mi scrive per chiedere consiglio su come uscire dalla depressione rispondo con parole di incoraggiamento e con consigli pratici, ma sottolineo sempre il fatto che io non ho le competenze necessarie per valutare la situazione. Consiglio di praticare lo yoga e la meditazione, ma anche di consultare un medico e uno psicoterapeuta. In alcuni casi la psicoterapia può essere una soluzione. In altri c’è bisogno di un trattamento un po’ più aggressivo per scuotersi dal torpore iniziale. Una cosa è certa: i farmaci aiutano a tornare a galla ma perché il ritrovato benessere sia duraturo è necessario affrontare cause della nostra sofferenza.
Una volta “ricaricate le batterie” bisogna ricominciare a camminare con le proprie gambe. La cosa più importante è trovare la forza di chiedere aiuto. La persona depressa non vede le cose con chiarezza e non può farcela da sola. L’appoggio di un professionista fidato e competente è un tesoro inestimabile quando ci ritroviamo (pur non volendolo ammettere) a non essere in grado di prendere in mano le redini della nostra vita.
Non può essere un amico o un parente per via del coinvolgimento emotivo e delle aspettative che potrebbe avere nei nostri confronti. E prima che mi diciate – cosa verissima – che i medici davvero empatici e competenti si contano sulle dita di una mano, vi invito ad andare a stanarli. Adesso, subito. Perché il giorno in cui si sta davvero male sarà davvero confortante potersi fidare di qualcuno.